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N E W S ASSOCIAZIONE 13.11.2024
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L'omaggio della Nazionale alle vittime della strage dell'Heysel.

Gravina: "Presenza degli Azzurri segno di profondo rispetto"

Il presidente federale, il capodelegazione della Nazionale Gianluigi Buffon e il Ct Luciano Spalletti hanno deposto tre mazzi di fiori sotto la lapide in ricordo delle 39 persone che persero la vita il 29 maggio 1985 in occasione della finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus.

Un intenso momento di raccoglimento davanti alla lapide posta accanto a dove si trovava il tristemente famoso Settore Z. Questa sera, alla vigilia del match di Nations League con il Belgio in programma domani in quello che è stato ormai ribattezzato Stadio "Re Baldovino", la Nazionale al completo ha reso omaggio alle vittime della strage dell'Heysel. Il presidente della FIGC Gabriele Gravina, il capodelegazione della Nazionale Gianluigi Buffon e il Ct Luciano Spalletti - insieme allo staff ea tutti gli Azzurri - hanno deposto tre mazzi di fiori (uno rosso, uno bianco e uno verde) nel luogo dove il 29 maggio del 1985 persero la vita 39 persone a causa dei disordini scoppiati prima dell'inizio della finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus. "La presenza degli Azzurri davanti al luogo della tragedia dell'Heysel – ha commentato Gravina - rappresenta un segno di profondo rispetto e di grande testimonianza. La memoria ci definisce come individui e come movimento, il dolore provocato da quella strage non può e non deve essere dimenticato, per le vittime, per i loro familiari e per l'intero calcio europeo, affinché drammi del genere non accadano mai più". "La data del 29 maggio 1985 - ha sottolineato Spalletti - deve rimanere nella memoria di tutti per il rispetto che dobbiamo a quelle famiglie. Il calcio è fatto di momenti bellissimi, ma ce ne sono altri tristi come questo, che non devono più succedere. Lo dobbiamo far capire a chi viene allo stadio, che è un luogo per divertirsi, incontrare persone e amare uno sport caro a tanta gente". Presenti alla commemorazione la presidente della Federazione belga Pascale Van Damme, la ministra dell'Interno Annelies Verlinden e l'Ambasciatrice Italiana a Bruxelles Federica Favi, che hanno a loro volta deposto delle corone di fiori in memoria delle vittime della tragedia. Fonte: Figc.it © 13 novembre 2024 Video: Tuttosport.com ©

Andrea Lorentini: "Mio padre morì all'Heysel

davanti al nonno, voleva salvare un bambino"

di Paolo Tomaselli

Lorentini, presidente dell’associazione delle vittime della strage dell’Heysel, domani l’Italia gioca nello stadio dove il 29 maggio 1985 morirono 39 tifosi prima di Juve-Liverpool: "I ricordi non si cancellano".

Andrea Lorentini, presidente dell’associazione delle vittime della strage dell’Heysel, domani l’Italia gioca nello stadio, rimodernato, dove il 29 maggio 1985 morirono 39 tifosi prima di Juve-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni. I tempi sono maturi per parlare di una tragedia nazionale ?

"Sì, non è stata solo una tragedia di parte: oltre ai tifosi juventini, a un fotografo di Reggio Emilia e a 7 stranieri, quanti sanno che sono morti anche tre interisti ?".

Oggi ci sarà una commemorazione davanti alla lapide dell’Heysel con il presidente Gravina, Spalletti e Buffon. In pochi ricordano anche che la Nazionale ha ritirato la maglia 39 in memoria dei caduti.

"Sì, allora abbiamo ringraziato molto il presidente Tavecchio per la sensibilità, come oggi facciamo con Gravina. La prima cerimonia si svolse nel 2015".

Era la prima volta all’Heysel per lei ?

"No, fu nel 2005 per il ventennale: una sensazione straniante. Mio nonno Otello, che ha istituito l’associazione dopo la strage, raccontò a me e a mio fratello la dinamica degli incidenti. Il luogo è stato ricostruito, ma la morfologia dell’impianto non è così diversa. E quella sensazione non si cancella".

La storia di suo padre Roberto resta unica. Forse in tanti non la ricordano più.

"Lui era già salvo, ma ha scelto di gettarsi nella calca per salvare un bambino e mentre gli praticava la respirazione bocca a bocca è stato travolto. Da medico ha sacrificato la sua vita ed è un esempio che portiamo ai giovani nelle scuole: anche in un momento così drammatico c’è la speranza di un gesto positivo ed eroico. Lui ha vissuto fino alla fine per aiutare gli altri e la medaglia d’argento al valore civile è una testimonianza per tutti".

Come si tiene vivo il ricordo ?

"Con diversi progetti di educazione civico-sportiva: la memoria fine a se stessa rischia di finire nel pietismo, noi cerchiamo di riempirla di contenuti sul fair play".

Chissà se i tifosi della Fiorentina si ricordano che Otello era un grande tifoso viola ed era all’Heysel solo per accompagnare il figlio.

"Qualcuno lo saprà, qualcuno farà finta di non saperlo. Lavoriamo tanto nelle scuole proprio per fare un po’ di cultura sportiva. Un conto è lo sfottò tra tifosi, ma il dileggio per la morte di 39 innocenti è una grave mancanza di rispetto e un vulnus di educazione civica".

Ci sono ancora cori e striscioni persino sulla strage di Superga del 1949. La strada sembra lunga, non trova ?

"Sì, ma nel nostro piccolo se riusciamo a far riflettere uno-due ragazzi a ogni incontro e a educarli a un tifo sano e corretto, è già un successo. Anche se mi rendo conto che sono gocce nel mare".

Il rapporto con la Juve come si è evoluto ?

"C’è sempre stata una mancanza di memoria fin da subito e non siamo mai arrivati alla piena condivisione della vicenda, per cui noi facciamo il nostro percorso: la logica adesso è proprio quella di elevare la tragedia da vicenda di parte, con i morti e lo scalpo del nemico, a una tragedia europea e italiana".

Lei è stato molto critico con Boniperti.

"Lui aveva necessità di dare un valore sportivo a quella Coppa, l’unica che mancava nella sua parabola di presidente. Per noi si fa fatica a dare un significato sportivo a un trofeo che si è giocato con 39 cadaveri a bordo campo. Per la Juve, più si parlava della tragedia e più quella Coppa perdeva di significato".

È assodato però che si è giocato per limitare i danni.

"Sì, è un elemento chiave. Mio nonno era a bordo campo accanto al cadavere di mio padre e pensava fossero matti a giocare. Ma poi anche in sede processuale è stato ricostruito che fu fondamentale disputare la partita per tenere tutti dentro lo stadio, mentre i carrarmati dell’esercito venivano chiamati per garantire il deflusso. Ma non era più un evento sportivo".

Per il quarantennale farete qualcosa assieme alla Juve ?

"Con Andrea Agnelli ci siamo incontrati per iniziare un rapporto diverso, ma non ci siamo pienamente riusciti. E con la nuova dirigenza non sappiamo se potremo aprire un nuovo capitolo: preferisco non sbilanciarmi".

La maglia 39 della Juve è mai stata ritirata ?

"Non mi risulta".

Fonte: Corriere.it © 13 novembre 2024 (Testo © Fotografia) Tweet: Associazionefamiliarivittimeheysel.it ©

I morti di Valencia e il calcio che va

avanti: ma l'Heysel è un'altra storia

di Francesco Caremani

Roma-Real Madrid, 11 settembre 2001. Per la mia generazione, quelli di noi che amano il calcio, la prima giornata della Champions League 2001-02 è passata alla storia per essersi giocata nello stesso giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Si giocò mentre New York bruciava, si giocò mentre c’era chi lottava per estrarre i corpi da sotto le macerie, si giocava mentre il mondo, al di qua dell’Atlantico, era incollato, attonito, dal primo pomeriggio davanti al televisore, confondendo il fumo dell’attentato con quello dei fumogeni dentro uno stadio.

Il dramma di Valencia - All’epoca l’Uefa non fu in grado di rimandare la prima giornata, rimandando solamente le partite del giorno dopo. Un meccanismo, già allora, incapace di fermarsi, incapace di portare rispetto a qualcosa che era molto più grande di lui, dentro un calendario che più di venti anni fa era difficile da gestire, figurarsi oggi. È accaduto di nuovo. In questi giorni in cui la Comunità Valenciana sta affrontando il disastro di un evento climatico senza precedenti, mentre la conta dei morti diventa insopportabile e la ripresa della vita quotidiana un miraggio, e mentre la MotoGP ha rinunciato a correre nel circuito cittadino, accettando anche di finire il Mondiale allo stato delle cose per poi virare su Barcellona, il calcio non si è fermato, non lo ha fatto l’Uefa con la Champions League, non lo ha fatto la Liga del grande "moralizzatore" Javier Tebas Medrano. Che immensa vergogna. Il calcio non si è fermato nemmeno durante la pandemia di Covid-19, ovvero lo ha fatto ma dopo, lo ha fatto perché non poteva farne a meno riprendendo la maggior parte dei campionati e le coppe europee in estate per consegnare premi e trofei, mentre c’è chi ha avuto più dignità e ha interrotto tutto, chi non assegnando il titolo e chi riconoscendolo alla squadra oggettivamente più forte, roba da Europa del Nord ma non del Sud. In Italia, per esempio, si è forzata la mano fino all’impossibile, facendo giocare le squadre in stadi vuoti e in un clima surreale, poi ripartendo e violando più volte i protocolli senza subire sanzioni; parte di un capitolo ben peggiore di un Paese che si è vergognosamente scoperto nemico della scienza.

The show must go on - Restando all’Italia, sono all’ordine del giorno le polemiche per partite non giocate a causa delle alluvioni o di eventi climatici disastrosi, che hanno causato danni ingenti alla popolazione e morti. In questi anni è accaduto per un Napoli-Juventus (c’era stato un morto), per Fiorentina-Juventus (con la Toscana sott’acqua) e per Bologna-Milan con l’Emilia Romagna in ginocchio da due anni. Spesso si è polemizzato sul fatto che il giorno della partita c’era il sole dimenticando tutto il resto. E forse, allora, è il caso di dirselo fino in fondo. Se il calcio fosse ancora un gioco lo si interromperebbe sempre di fronte a cose più importanti, di fronte alla Storia, di fronte alle calamità naturali, di fronte ai morti. Evidentemente non lo è più e forse non lo è mai stato. Il calcio, invece, è un’industria e come tale deve andare avanti, non si può fermare altrimenti collassa dal punto di vista economico, come ha rischiato di fare durante la pandemia. Continuare a dirsi che è altro è ipocrita e fuorviante, quindi anche i protagonisti dovrebbero avere il coraggio di ammetterlo. Un brutto risveglio per chi crede ancora alle favole. Però c’è un concorso di colpa, perché parte dei tifosi (?) sui social media ha sempre espresso il parere di voler vedere le partite a tutti i costi: a Napoli, come a Firenze e Bologna. Vogliono la partita, qualunque cosa accada, perché se non sono colpiti personalmente dalle tragedie non gliene frega niente e basta con questa storia che il tifo organizzato "fa anche cose buone", certo, quando non è impegnato nelle partite o quando, come a Valencia, non c’è spazio per altro che per gli aiuti e dove ogni secondo è prezioso, ma potendo scegliere… Dirò di più. Ricordo ancora il giorno della morte di Davide Astori, quando la Serie A, udite Merano, si è fermata. Ricordo tutto, i commenti sotto un mio post, tifosi (?) che mi hanno bloccato, che rivendicavano il diritto alla gradinata di uno stadio sulla pelle di un ragazzo che era morto da poche ore, rivendicando anche i soldi spesi (tutte le settimane di tutte le stagioni, ma non ce l’hanno il mutuo da pagare e i figli da mandare a scuola?!) e dimenticando che l’industria ha solamente clienti e che quando qualcuno, molti anni fa, lo scriveva e lo faceva notare in molti hanno girato la testa dall’altra parte perché l’unica cosa che contava era poter andare allo stadio, le coreografie, battere i "nemici", mica fermarsi a riflettere. Perché, va detto, un calcio diverso pretenderebbe una presa di posizione radicale e si dovrebbe stoppare prima di ripartire in modo completamente differente, e chi pensa che si possa fare in corsa non ha alcun contatto con la realtà.

L’Heysel e le ricostruzioni posticce - In questi giorni alcuni siti, sul fatto che il calcio non si ferma mai, nemmeno davanti ai morti, hanno ricordato l’Heysel. E come al solito lo hanno fatto male. Era osceno giocare con i morti messi in fila sotto la tribuna ? Sì lo era. E chi meglio di Otello Lorentini che piangeva Roberto, il figlio unico, medaglia d’argento al valore civile per essere morto tentando di salvare un connazionale, poteva saperlo, lui che poi ha fondato l’Associazione tra le famiglie delle vittime di Bruxelles per affrontare il processo e ottenere giustizia dopo quella strage, perché di strage si è trattato. Eppure, durante il processo, ha capito che quella scelta è stata oculata e che ha impedito altri morti, nel momento in cui tutti erano a conoscenza di quello che era accaduto nella curva Z. Il 29 maggio 2025 saranno passati 40 anni da quella maledetta notte di Bruxelles e nell’avvicinarsi a quell’anniversario si inizia già a sentire il rumore delle fake news e delle ricostruzioni posticce per coprire la vergogna di chi non ha mai fatto niente per ricordare le 39 vittime e di chi, gli antijuventini, le hanno offese dalle gradinate di uno stadio. Gli stessi che vogliono andarci a tutti i costi, anche quando ci sono dei morti, anche quando la Storia gli suggerisce che sarebbe meglio non farlo: ma che ne sanno loro della storia e, soprattutto, della pietas. Termino con un’autocitazione, poco simpatica me ne rendo conto: chi volesse saperne di più sull’Heysel in maniera corretta può leggere il mio libro "Heysel - le verità di una strage annunciata", il primo sull’argomento, mentre gli altri sono arrivati tutti dopo. Per chi, invece, vuole credere agli asini che volano c’è solo l’imbarazzo della scelta. Fonte: Today.it © 6 novembre 2011 Fotografia: Lastampa.it ©

 
    
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