Lettera a Francesco da
Bruxelles
La tragedia dell’Heysel raccontata da un padre a
suo figlio
di Domenico Laudadio
Carissimo Francesco...

Questa volta ti racconterò una
storia molto triste della tua amata Juventus, al termine
della quale il colore del prato non ti sembrerà più
verde e le maglie delle squadre si saranno sbiadite alla
centrifuga dello sgomento. Una specie di favola senza un
lieto fine, in cui persino le carezze di Michel Platini
al pallone diventeranno ruvide scarpate come quelle di
un Favero e la sua tipica sfrenata esultanza alla
trasformazione impeccabile di un calcio di rigore, nel
disincantato silenzio di una luna di sangue, figlia più
del furore che di una vera gioia, repressa, già in fuga
e latitante dalla ragione. Mi dispiace davvero tanto
trasferirti un dolore molto più grande della tua
comprensione, ma è una memoria sacra e dovere di ciascun
tifoso bianconero riceverla in eredità dalla sua storia,
perché segnò per sempre con il sangue di 39 innocenti
l'architrave imponente del tempio del calcio,
condannando ai posteri i suoi sommi sacerdoti e gli
altri farisei alla vergogna...
I nostri padri, gli antichi Romani, più di duemila anni
fa prendevano a calci per divertimento una specie di
sfera, ma furono gli Inglesi, mirabilmente, ad inventare
nel 1863 il gioco dei 22 uomini in camicia e mutandoni
intorno ad una palla rotonda di cuoio. Il 29 maggio
1985, purtroppo, ben altri Inglesi ne disonorarono lo
spirito sugli spalti di uno stadio, disseminando l’odio
e causando la morte di tanta povera gente. "Thanatos kai
Paidia"… In greco antico significa "morte e gioco", ma
sono due parole che non devono mai sposarsi fra loro o
altrimenti soltanto nel nome di Satana. Questa,
purtroppo, fu la sorte di 39 angeli, in particolare di
un bambino di nome Andrea, un poco più grande di te, che
si è addormentato in eterno abbracciandosi forte, forte,
dalla paura con il suo papà. I nostri padri, gli antichi
Romani, più di duemila anni fa prendevano a calci per
divertimento una specie di sfera, ma furono gli Inglesi,
mirabilmente, ad inventare nel 1863 il gioco dei 22
uomini in camicia e mutandoni intorno ad una palla
rotonda di cuoio.
Il 29 maggio 1985, purtroppo, ben
altri Inglesi ne disonorarono lo spirito sugli spalti di
uno stadio, disseminando l’odio e causando la morte di
tanta povera gente. "Thanatos kai Paidia"… In greco
antico significa "morte e gioco", ma sono due parole che
non devono mai sposarsi fra loro o altrimenti soltanto
nel nome di Satana.
Questa, purtroppo, fu la sorte
di 39 angeli, in particolare di un bambino di nome
Andrea, un poco più grande di te, che si è addormentato
in eterno abbracciandosi forte, forte, dalla paura con
il suo papà. Allora, immagina, Francesco, la partita
delle partite… Come sentirai altre volte dire, in gergo:
"la madre di tutte le partite"… In campo le due squadre
più forti del mondo in quel momento a sfidarsi in una
partita secca soltanto, "chi la vince, vince !". In
palio la Coppa dei Campioni, quella più pesante, in
acciaio, con due manici enormi che sembrano le grandi
orecchie di un elefante… Una, il Liverpool, l’aveva
vinta già altre 4 volte, l’ultima proprio l’anno
precedente in Italia contro la Roma allo stadio
"Olimpico", al termine di una drammatica finale vinta ai
calci di rigore. L’altra, la Juventus, invece ne aveva
già perse altre due, sempre con lo stesso risultato, un
goal di meno degli avversari e giocando davvero molto
male: a Belgrado contro il mitico Ajax di Johan Cruijff
nel lontano 1973 e ad Atene contro il modesto Amburgo e
tutti i pronostici, soltanto due anni prima, nel 1983.
Insomma, un po’ come il piatto forte di un rinomatissimo
chef, insaporito da spezie pregiate e originale come
pochi. Quindi, non restava altro che imbandire una lunga
tavolata in un bel locale all’aperto immerso nel verde e
accomodarsi festanti al banchetto per assaggiarlo. Ma i
proprietari del ristorante, però, non si erano affatto
preoccupati della sistemazione delle sedie, permettendo
ai commensali di accamparsi in una sorta di pic-nic alla
buona, dimenticandosi che molto presto sarebbe stato
preso d’assalto dalle formiche rosse. Purtroppo, nella
realtà, così come in questa metafora, avvenne proprio
così.
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29 maggio 1985, Bruxelles era
nel cuore dell’Europa, il Belgio da svariati lustri il
paese civile e pacifico che aveva ospitato nelle viscere
della sua terra migliaia di minatori italiani, una
risorsa di fatto umile quanto industriosa, di grande
esempio e molto preziosa. La "Grand Place" della
capitale sembrava una bomboniera di Swarovski e la luce
del sole la smerigliava all’incanto dei suoi visitatori.
Sciarpe e bandiere di colore rosso ricordavano per certi
versi molte nostre celebri piazze italiane invase dalla
politica, ma fortunatamente non era quello un giorno di
protesta, ma soltanto di festa. Anche il bianco e il
nero s’annodavano intorno al collo dei presenti o
cingevano la vita di stoffa come serpenti, mescolandosi
nella folla crescente e insidiando da lunghe aste di
bandiere l’azzurro del cielo. A stormi quei tifosi
italiani, dagli accenti dialettali più strani,
sembravano passeggiare sul pavé come rapiti, sollevati
un metro da terra, ignari che il miraggio di quella
coppa lassù, sulla nuvola più in alto, fosse il calice
amaro di fiele del Getsemani… Come nel più magico dei
presepi artigianali a pochi centimetri dalla grazia
trama nell’ombra la violenza degli scagnozzi di Erode,
arte e meraviglia presto fecero infelice conoscenza dei
famigerati vandali britannici. A terra un’infiorata di
cocci di vetro dalle bottiglie di birra rotte, scagliate
ovunque, fra gli schiamazzi di giubilo dei trogloditi
per le vetrine dei negozi infrante e le saracinesche
abbassate in tutta fretta dagli esercenti per evitare il
peggio dal manipolo barcollante degli zombie
dell’alcool. Quanti pacificamente in piazza con un
semplice sorriso e il pollice alzato in segno d’intesa
si stavano scambiando sciarpe e scatti di polaroid fra
loro, si adombrarono stupiti, molto scossi e intimoriti
dai disordini in atto. Sembravano le scene di due mondi
opposti e paralleli, ma da questo momento la pace e la
guerra scorreranno su di un binario unico e senza più
fermate. E così, assieme ai primi calci e pugni,
spuntarono anche le lame dei coltelli. Certamente non si
trattava della diretta di "Giochi senza Frontiere", ma
di ripetuti scontri senza quartiere. Un Inglese rimase
ferito seriamente e dato per morto dalla stampa
erroneamente il giorno dopo.
"Perché ?", ti starai
domandando… Già, figlio mio, perché ?! E’ ancora oggi
molto complicato trovare risposte, il senso alla
violenza in sé medesima, gratuita, peggio ancora una
giustificazione… Diciamo: è come un acquazzone, in cui
devi pensare per prima cosa a trovare un riparo, poi a
dissertare con i vicini sul meteo… L’unica certa,
solida, consolazione: come la più violenta delle
tempeste mai potrà cancellare tutta la terra, così la
più insulsa e cieca delle barbarie dovuta al calcio
nulla potrà sulla fisica e nella filosofia di una palla
che rimbalza e rotola per terra rincorsa da un padre e
dal suo bambino. Le strade intorno allo stadio
pullulavano di variopinti personaggi, di nuove e antiche
maschere della commedia dell’arte del pallone,
un’allegra processione nel religioso fracasso di devoti
sperticati in corali sguaiate. Sudati, a torso nudo, gli
ominidi albionici ballavano in pochi metri e forse meno
denti, improvvisando sconclusionate quadriglie, sospinti
dall’ennesima pinta. Gli Italiani si mostravano loro più
sobri, ma non certo secondi per goliardia, salutando
allegramente con le due dita in segno di vittoria. La
Juventus, caro Francesco, è veramente un’anziana
signora, con tanti nipoti sparsi per l’Italia e nel
mondo, di professioni e ceto sociale differenti,
d’ideali politici spesso in competizione, ma che non
farà mai distinzione tra loro e per questo la amano e la
odiano alla follia tutti, perché è una grande regina, ma
è da prima figlia del medesimo popolo che nel nome suo
accomuna… Fuori allo stadio millantatori nostrani
moltiplicavano i franchi o le lire per un tagliando
dell’ultim’ora, diventato oramai quasi impossibile come
un goal in zona Cesarini. In un capannello di persone
qualcuno stava contrattando animosamente sul prezzo
mentre un poliziotto belga osservava con sprezzante
distacco dall’alto del suo cavallo pezzato che nitriva e
sbuffava per le mosche nervoso. Centinaia di biglietti
veri e fasulli ingrossavano la truffaldina mercanzia dei
venali bagarini vocianti dalla fermata della metro al
piazzale dell’antistadio. Un vero e proprio business da
codice penale, partito da molto lontano, insinuandosi
nei vari ambiti, sottaciuto, incontrollato, impunito e
senza scrupoli, infine corresponsabile delle nefaste
conseguenze. Infatti, i tagliandi di quello spicchio di
curva, il settore denominato "Z", destinato secondo il
"piano" della sicurezza agli spettatori belgi e al
pubblico cosiddetto "neutrale", erano stati venduti a
Bruxelles, ma in gran numero riacquistati a blocchi da
alcuni privati, Juventus Club e da agenzie turistiche
italiane.
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Un lunghissimo filare biblico
di anime bianconere in tumulto, nel trambusto dei cori e
delle trombe, si snodava incolonnandosi verso quel sogno
cullato a occhi aperti e svezzato per oltre due anni,
dopo la disfatta di Atene. Da una parte e dall’altra i
due popoli sostavano in attesa fuori alle porte
d’entrata dell’Heysel, sotto lo sguardo di sufficienza
degli agenti. Assurda, offensiva, la discriminante nei
tempi e nei modi d’ingresso delle opposte tifoserie
nella stessa curva. Davanti ad una porta larga appena 80
centimetri un flemmatico e indisponente setaccio della
polizia belga nella perquisizione scrupolosa e maniacale
agli Juventini e agli altri tifosi del settore Z. Manica
imperdonabilmente molto più larga, al contrario, per i "reds",
già in sostanzioso numero sbronzi a spingere e urlare
forte per entrare, a fiotti, senza controlli, come un
fiume in piena. Intanto altri Inglesi, a pochi metri di
distanza, aprivano una breccia nel muro sgretolato dello
stadio. Un malvagio presagio la visione di quest’utero
nel tufo da cui si partorivano frenetici passaggi di
biglietti non strappati al controllo, intere casse di
birra, di pietre, di spranghe di legno e di ferro
raccolte in un cantiere incustodito nei pressi,
saccheggiato in brevissimo tempo dagli hooligans. Lo
sguardo inebetito e assente dei gendarmi indifferenti
incoraggiava, di fatto complice, l’armamentario
logistico di una manifesta premeditazione. L’obiettivo
reale degli hooligans era di vendicare la finale del
1984 a Roma dove avevano subito agguati per strada dai
teppisti locali in risse e accoltellamenti e dove erano
stati caricati anche allo stadio dalla celere italiana,
ben addestrata e smaliziata dalle domeniche di violenza
fuori e dentro gli stadi dello stivale. Un arsenale di
fortuna per quella vera e propria strategia di guerra,
preparata scientemente a tavolino dalla peggior feccia
umana d’oltremanica, al soldo di un ex parà della guerra
delle Falkland. Non soltanto tifosi del Liverpool, ma
anche le teste calde di altre tifoserie britanniche si
erano mischiate alla causa, coalizzandosi
"patriotticamente" nelle fila dell’esercito di questa
infame macchinazione etnico-bellica. Appena dentro lo
stadio è un tripudio di colori, di canti, di sole, di
cuori in festa, di amore. Fa caldo, ma esattamente come
la stanchezza per il lungo viaggio, non si avverte ormai
neanche più. L’adrenalina è in una sola parola, fatata,
"Juve !", da urlare forte, a ritmo, con le braccia
protese al cielo primaverile di Bruxelles, molto più
appagante di una bibita fresca e di quel panino
carissimo al wurstel.
La curva dei tifosi Juventini
a Bruxelles, sotto le sfere gigantesche dell’Atomium, è
proprio uno spettacolo nello spettacolo, un incendio di
passione fra diecimila teste e più di mille bandiere,
un’unica voce possente, a tratti titanica e
inarrestabile. La curva dei "reds", dall’altra parte,
invece, presentava alla vista un’anomalia molto
singolare: un ampio settore semivuoto delimitato da una
fragile rete da giardino che si riempiva molto più
lentamente rispetto a quello già gremito dagli Inglesi.
E’ il settore Z, di cui ti dicevo: non vi erano ultras,
ma Juventus Club, intere famiglie in vacanza con
anziani, donne e bambini al seguito, sportivi amanti del
bel calcio, anche tifosi di altre squadre che
accompagnavano i loro amici bianconeri, Francesi tifosi
di Michel Platini, emigrati italiani e alcuni cittadini
belgi. A presidio di quella ridicola gabbia, consona più
a un pollaio che alle bestie feroci di uno zoo, si
contavano meno di una decina di poliziotti, tra cui una
donna, neanche abbigliati in tenuta da combattimento.
L’ottimismo e l’incoscienza pedalavano in tandem
incontro alla sciagura da perfetti e saccenti idioti
anche graduati ignorata. Mentre in campo si stava
giocando una partitella di bambini per ingannare
l’attesa della finale, sulle gradinate sberciate
dell’Heysel la febbre spasmodicamente sale. Grobbelaar e
Ian Rush, due importanti calciatori del Liverpool, si
recavano sotto la curva ad attizzare grintosi con ampi
gesti il proprio pubblico. Il mar rosso degli Inglesi
esplose in un boato fragoroso. Purtroppo, la miccia
della follia si era accesa, drammaticamente. In molti
spingono contro l’effimero divisorio, scuotendolo ed
abbattendolo, incuranti delle minacce degli scarsi e
pavidi poliziotti e del loro timido roteare i
manganelli. Parte subito qualche sputo, poi,
d’improvviso, dalle retrovie una pioggia di monete,
sassi, bottiglie, aste di bandiera e un razzo che si
abbatte nel settore Z. Cadono le prime sagome umane
insanguinate fra gli spettatori immobilizzati dalla
paura, centrati come birilli al bowling. La guerra è
presto dichiarata: segue repentina la fuga degli sparuti
gendarmi, impotenti e vili. Scopriranno da subito che le
pile nelle ricetrasmittenti sono completamente scariche
e sarà, pertanto, impossibile avvisare urgentemente il
resto del battaglione che è accorso in massa fuori allo
stadio ad inseguire un paio di ladruncoli autori di una
rapina ad una bancarella degli hot-dogs.
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La rete per le galline viene
definitivamente abbassata dagli hooligans che sfociano
straripanti in una selvaggia caccia allo "juventino" nel
settore Z. Maschio o femmina, vecchio o piccolo, non fa
alcuna differenza. Non c’è rispetto più di niente e per
nessuno. Colpiscono duramente chiunque, picchiandolo a
sangue, ad eccezione di chi indossa per sua fortuna
qualcosa di rosso, una felpa, una maglietta o la sciarpa
del Liverpool. In tanti se l’erano scambiata nelle ore
precedenti, mai immaginando di cavarsela in tutto
questo… Giù pugni, calci e sprangate a chi capita,
capita, impietosamente, anche a chi è infermo perché già
ferito o per un problema fisico o dal terrore. Qualcuno
reagendo più coraggiosamente all’assalto della
avanguardia britannica, si difende alla meglio con le
mani, non arretrando, e poi, sfruttando un corridoio
libero in alto, guadagna tempestivamente l’uscita dallo
stadio saltando di sotto su un terrapieno mentre la
mostruosa massa umana degli spettatori, compressi e
stritolati fra loro, arretra tragicamente all’indietro
verso il muro di cinta del settore. Un delirio pazzesco
e al momento incontrovertibile, il copione spietato di
violenza dettato dal maligno ad anime già perdute,
aguzzini di un crudele sacrificio, fuori da ogni
religione e altare. Le porte d’accesso alla curva nel
recinto del campo sono tutte chiuse a chiave, ma
dall’interno. Basterebbero almeno due idranti per
fermare gli inglesi, ma nessuno ci pensa, forse neanche
ci sono o bisognerebbe vedere se funzionano…
L’imbecillità s’è manifestata al suo culmine nella
disorganizzazione assoluta dei responsabili politici e
militari della Municipalità che hanno predisposto
sommariamente i dettagli di un evento notoriamente a
grave rischio. Moltissimi tifosi, disperatamente,
provano a scavalcare le inferriate, crocifiggendosi nel
filo spinato, alcuni passano, ma vengono prontamente
inseguiti e colpiti dalle bastonate dei poliziotti.
Nella curva opposta gli ultras bianconeri fremono
assistendo preoccupati e in gran fermento alla scena
apocalittica davanti ai loro occhi in quegli istanti.
Quel settore è troppo distante dal loro, nonostante ciò,
generosamente, alcuni scendono velocemente sulla pista
di atletica, cercando in ogni modo di raggiungerlo,
ingaggiando immediatamente durissimi scontri in ogni
zona del campo con la polizia che li tampona a fatica.
Una battaglia dentro l’altra mentre, intanto, gli
inglesi, applicando la tattica, indietreggiavano prima
di qualche metro, creando un vuoto nelle gradinate, poi,
ricompattandosi in numero, forze e armi, replicavano
un’altra carica con altrettanta ferocia.
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Di colpo si udì un tonfo,
sordo: per la pressione insostenibile della folla era
crollato letteralmente un pezzo di stadio, parte del
muretto di cinta del settore Z. La gente improvvisamente
cadde nel vuoto, scivolando e precipitando a frotte,
corpi su corpi, aggrovigliandosi come i grani in un
rosario di afflizione. In quel malefico groviglio di
cuori stipati "Sorella morte" coglie insaziabile le sue
primizie e schiacciandoli, calpesta, trafigge, lacera,
soffoca, spegne senza pietà ed inesorabilmente a sé
rapisce, senza fare distinguo di età, di sesso, di
provenienza, di storia, di sentimento. Ora,
paradossalmente, la via di fuga sul campo è libera,
perché l’inferriata del recinto, scardinata dal muro per
effetto del crollo, ha ceduto, accartocciandosi e
intrappolandovi persone sotto il peso delle altre
arrampicate a scavalcarla in preda al panico,
raggiungendo il prato verde di gioco. L’eden per
centinaia di feriti, contusi, lussati, fratturati,
asfissiati. Svengono in tanti, altri miracolosamente
illesi vagano tremanti, pallidi come fantasmi, alla
ricerca di amici e parenti. Chi, poi, mezzo moribondo
riprende conoscenza scopre il volto e le braccia
amorevoli di un volontario infaticabile della croce
rossa che lo stava rianimando, gli unici cavalieri senza
macchia di quella sera. La tragedia annunciata ed
evitabile si era appena consumata nel piatto fondo della
ingorda massaia senza cuore, la U.E.F.A. Sugli spalti
del settore Z lo scenario è lo stesso al termine di un
bombardamento aereo: cadaveri e feriti intrappolati fra
le macerie, vestiti, scarpe, borse e oggetti personali
sparsi come una semina dall’inferno. Le urla di dolore e
di rabbia dei feriti e dei familiari delle vittime, la
disperazione e l’ardore di quei soccorsi improvvisati da
volenterosi eroici su tramonti precoci di vite. In fila
avanzava il serpentone dei gendarmi neri, in tuta da
combattimento, oramai inutili spaventapasseri a guardia
della distruzione. Gli Inglesi ballano e cantano
strafottenti, a pochi metri dal massacro. Qualcuno di
loro più sobrio va a caccia dei portafogli e scaglia per
aria gli oggetti rovistati, un altro urina per terra,
dove gli capita. C’è pure chi fa le boccacce ai morti.
Oramai, "la lezione" è stata inflitta agli Italiani, la
vendetta consumata, la curva sfondata e conquistata.
Forzato l’accesso al settore, una carica massiccia e
molto decisa viene sferrata dalla gendarmeria belga che
li allontana di forza e definitivamente dal luogo
dell’eccidio, ricacciandoli nel settore di pertinenza,
molto più che stipato. Insomma, la stalla viene richiusa
alla meglio dopo che le iene hanno già scannato gli
agnelli. Adesso non resterà altro agli inquirenti che
quantificare il dolo, ma è sempre bene precisarlo che la
vita umana non avrà giammai realmente un prezzo
soddisfacente.
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La tribuna viene invasa da
tifosi scampati al pericolo che si raccontano sudati e
insanguinati ai giornalisti, raccomandandosi soprattutto
di una telefonata a casa, consegnando prefissi e numeri
scritti su un pezzettino di carta. Non esistevano ancora
i telefonini, non c’era internet, a quei tempi. Lassù
c’è anche l’infermeria dello stadio che dispensa i primi
soccorsi. La diretta delle televisioni mondiali
documentava muta o con parole affannate di circostanza
l’inaudito. In Italia toccò al telecronista sportivo
della Rai, Bruno Pizzul, l’ingrata pratica di condurre
con la consueta professionalità il racconto di morte.
Alcuni dei feriti più gravi erano stati portati
d’urgenza negli spogliatoi della Juventus perché li
soccorresse il medico sociale del club, il Dott. La
Francesco Neve. Non è assolutamente da escludere, anche
se questa è una informazione trapelata ufficiosamente,
ci fosse anche qualcuna delle vittime. Le salme dei
caduti venivano trasportate frettolosamente a braccia o
su barelle di ogni tipo fuori nell’antistadio. I loro
volti erano vistosamente gonfi, lividi e con gli occhi
spalancati, poi, una volta adagiati, coperti
pietosamente da sciarpe o bandiere bianconere. Alcuni
ultras della Juventus erano riusciti a vincere la
strenua resistenza delle forze dell’ordine belghe ed
avevano raggiunto la curva "Z" scoprendone l’orrore.
Stravolti, ritornando nel proprio settore ad informare
tutti, incrociarono alcuni giocatori della Juventus,
molto turbati, usciti dagli spogliatoi per cercare di
calmare i tifosi esagitati. Gli riferirono tutto
credibilmente, chiedendo di non disputare più quella
partita per rispetto dei morti. I calciatori ascoltavano
tutto, solidali e sempre più scossi, dispensando parole
di conforto e ricevendo abbracci da tutti, senza negarsi
a nessuno.
Lo stadio, intorno, era diventata una
fortezza predisposta ad un assedio. Persino l’esercito
era stato allarmato mentre i battaglioni della
gendarmeria chiamati in rinforzo da altri presidi si
andavano via, via, schierando intorno al campo.
L’avvocato Agnelli, compresa la gravità moralmente
insostenibile della situazione, lasciò lo stadio scuro
in volto. Suo figlio Edoardo, al seguito della squadra,
sprofondato nella depressione restava in preda ad una
crisi di pianto sulle scalette degli spogliatoi. In
un’animosa e drammatica riunione dei dirigenti dei Club
con i vertici della UEFA, Boniperti espresse
autorevolmente la volontà della Juventus Football Club
di non disputare quella sera la finale. Le autorità
belghe e l’UEFA di contro gli intimarono di ritenerlo,
in questo caso, responsabile insieme al suo club dello
scoppio di nuovi disordini e di eventuali altre vittime,
perché la partita serviva all’esercito al fine di
blindare in sicurezza dentro e fuori l’impianto sportivo
e per presidiare successivamente, al termine della gara,
il rimpatrio degli inglesi e il deflusso degli altri
spettatori dallo stadio. Il Liverpool acconsentì a patto
che fosse convalidato il risultato finale dell’incontro
ed assegnato regolarmente il titolo europeo. La
Juventus, messa spalle contro il muro dalla "ragion di
stato", dovette piegarsi a malincuore per le
inoppugnabili motivazioni di ordine pubblico. I
dirigenti UEFA comunicarono ufficialmente che quella
partita sarebbe valsa agonisticamente a tutti gli
effetti per l’assegnazione del trofeo. Trapattoni,
l’allenatore della Juventus, appena informato della
notizia, intraprese un accorato discorso riunendo la
squadra nello spogliatoio, con il quale provò a pungere
nell’orgoglio e nella grinta i suoi calciatori, del
tutto scaricati psicologicamente dalla negatività
crudele degli eventi. La similitudine di un generale
prima della battaglia, dove i nemici più ardui da
abbattere sono più che altro fantasmi, dei sensi di
colpa.
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In seguito alla lettura di un
breve comunicato letto all’altoparlante dello stadio dai
capitani delle squadre, le due formazioni e la terna
arbitrale scesero sul terreno di gioco con quasi un’ora
e mezzo di ritardo. Sugli spalti in ogni settore un
clima surreale di festa misto a lutto divideva il
pubblico fra cori e mutismo, fumogeni e lacrime. "Juve
!, Juve !, Juve !" urlavano in curva come un mantra
d’amore i sostenitori bianconeri. Fra loro chi era
riuscito a dimenticarlo subito, chi non sapeva ancora
bene cosa dimenticare, chi non ci aveva creduto, chi
faceva finta di non saperlo, ma anche quelli che non
riuscivano più a pensare a nient’altro… Nonostante quei
38 poveri disgraziati, morti ammazzati per una partita
di pallone e nascosti di fuori, al buio, nelle tende
della croce rossa, a pochi metri dal muro perimetrale
dello stadio, il grande spettacolo doveva continuare…
Per salvaguardare l’immagine ed i laidi interessi
economici del governo del calcio, l’incapacità
gestionale degli organizzatori, delle forze dell’ordine
e della politica belga e del comune di Bruxelles si
erano ben trincerati dietro il paravento della
militarizzazione di un evento completamente sfuggito di
mano a tutti quanti loro. Il nostro Presidente del
Consiglio, l’onorevole Bettino Craxi, comprendendo le
trame neanche tanto oscure del disegno, aveva provato,
invano, con sdegno e fermezza ad impedire lo svolgimento
di quell’incontro di calcio. Sul posto era presente
anche il suo collega, l’onorevole De Michelis, all’epoca
ministro nel suo governo, ma non ci fu praticamente più
nulla da fare: l’ordine tassativo era di salvare il
grande circo con tutti i suoi carrozzoni, giocolieri e
parrucconi, prevaricando in qualsiasi remora la morale,
tanto, poi, l’adrenalina negli addetti ai lavori e degli
spettatori avrebbe bruciato nell’arena anche le ultime
strenue difese dell’etica.
E partita di calcio, fu.
Tacconi, il nostro atletico e muscoloso portiere, volava
imbattibile da un palo all’altro come Tarzan, rendendo
vano qualunque tentativo degli avversari. Il Liverpool
ci metteva molta più forza e convinzione, la Juve, al
contrario, giocava come fosse imballata e con la testa
altrove, ma in quella serata senza più regole, nel
secondo tempo trovò fuori area persino un calcio di
rigore. Platini, imperturbabile, al 60° tirò angolato e
lo segnò, esultando con rabbia mista a felicità, proprio
davanti alla maledetta curva della morte. La capriola
del clown e il battito delle mani del pubblico pagante,
nessuna importanza il sangue ancora fresco degli
acrobati, lo spettacolo doveva andare avanti… Poi, in
campo, poco o nulla più di uno sterile assalto degli
inglesi alla nostra area. Lo difesero con i denti, ma
era come se il risultato fosse già stato scritto nella
coscienza di tutti. 1-0 la scritta cubitale
fosforescente sul tabellone elettronico dell’Heysel:
dunque, vincitori e vinti, ma in quella mite serata di
maggio a Bruxelles avevano perso tutti: lo sport,
l’uomo, la vita e forse anche Dio. Il triplice fischio finale,
quelle lunghe maniche bianconere rivolte al cielo, anche
se lacrimava sangue. Juventus Campione d’Europa per un
tripudio ipocrita di caroselli d’auto che umiliavano le
strade di Torino, per cui, nonostante tutto, si
festeggiava in Italia senza il minimo ritegno quella
vittoria, se pur legittima, imbrattata da una strage,
marchiata a sangue dal timbro dell’Agnello di Dio su
poco meno di 40 martiri. Anche i nostri beniamini sul
campo avevano smarrito il dovuto contegno, improvvisando
in coppia o in piccoli gruppi, saltelli di gioia e
isolati giri di campo, riunendosi tutti insieme, poi,
sotto la curva dei tifosi, sollevando a mo’ di trofeo un
enorme pupazzo. Una immagine eloquente… L’aspetto più
grottesco in un lutto è proprio questo: indossare a
dispetto del pianto i ridicoli cenci della farsa.
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Alla Juventus la coppa dei
campioni fu consegnata da un delegato UEFA negli
spogliatoi, senza una cerimonia di premiazione, "alla
chetichella". Era riposta dentro una cassa di legno e
lì, proprio così, sarebbe dovuta restare, nella sua
dimora più consona, quella di una bara… Invece Michel
Platini, seminudo, in un raptus d’orgoglio pensò male di
portarla alla luce dei riflettori sul campo per
mostrarla ai suoi tifosi, in totale delirio. Tutto si
era compiuto. Lo stadio si andava svuotando, non
l’incubo dalla memoria, il peso in certe coscienze
vacue. La nostra squadra, ritornata in albergo duramente
provata dalla fatica e dallo stress emotivo accumulato,
correttamente non festeggiò la vittoria. Le bottiglie di
champagne sul tavolino dell’hall furono ignorate mentre
sul televisore accanto scorrevano senza interruzione le
immagini più cruente del telegiornale. In quel momento
si riaprirono loro gli occhi velati dall’effimero
trionfo, sul male… Su quello che realmente non potevano
non avere visto e su ciò che veramente non immaginavano
di vedere… Nessuna estasi in quella notte da campioni,
solo il tormento di chi non aveva reali colpe. In
particolare di Scirea, Gaetano, il più sensibile di
quegli uomini, il più umano e il più autentico dei
capitani bianconeri di sempre. In un’altra zona della
capitale belga, all’ospedale militare, i parenti
attendevano da molte ore di riconoscere le salme dei
loro cari. Notte insonne anche per le molte famiglie, da
Aosta a Lampedusa, alla disperata ricerca di notizie
dagli ospedali, chiamando il numero verde d’emergenza
attivato dal Ministero degli Esteri. Imprecisabile
l’identità, la conta reale e lo stato dei feriti lievi
dimessi dai nosocomi di Bruxelles, ma almeno era già
stata ufficialmente stilata una lista anagrafica quasi
completa delle vittime e dei feriti ricoverati più
gravi.
Molti dei tifosi avevano
ritrovato a fatica il proprio pullman all’uscita, alcuni
camminando fasciati di garze, senza le scarpe o con un
vistoso cerotto in testa. Un mesto rientro di torpedoni
con qualche posto vuoto e un silenzio giudice, senza
appello. Finalmente la sosta al primo autogrill, la coda
per telefonare, il battito del cuore a tamburo di voga
nella cabina, la caduta dei primi due gettoni come una
liberazione… Dall’altro parte del filo, 1500 chilometri
distante, quella preghiera alla madonna ora davvero
esaudita e un filo di voce che si arrende all’unico
pianto che rinfranca l’anima, di gioia. Poi, un sonno
ballerino, le prime luci dell’alba e l’amaro risveglio
sorseggiando un caffè, quello strazio in bianco e nero
sulle prime pagine dei quotidiani. Sulle testate dei
giornali l’enfasi di una grande vittoria scalzata
tragicamente dalla cronaca funerea, la certezza senza
smentite di una partita di pallone giocata al cimitero.
30 maggio 1985, Aeroporto di
Caselle, è quasi di mezzogiorno, in pista le ambulanze
attendono l’arrivo delle barelle con i feriti. Vi sono
molti fotografi, anche qualche tifoso. Sulla scaletta
mobile scendono dall’aereo i nostri calciatori in
divisa. Sono belli, ad aspettarli c’è il sole e luccica
persino la Coppa del dolore. Sergio Brio, d’istinto, la
solleva in aria e per un attimo non sembra più un
gigante. La leggenda ha inciampo nella risibile
vergogna, il mito della nostra grande storia spergiura
sulla bibbia aperta delle più epiche imprese. Persino la
coppa, con una sciarpa bianconera annodatale, parve
abbassare le grandi orecchie dallo scorno. Qualcosa pur
valeva in fin dei conti, ma proprio niente in quel
preciso istante, quanto Gerusalemme alla fine di una
crociata, quanto la musica di una banda di paese che
accompagna il funerale. Per questo e per sempre
rammentalo, Francesco, figlio mio adorato, non c’è
vittoria, non ci sarà mai una vera conquista senza di
lei, perché la vita è prima di ogni altra cosa.
Domenico Laudadio ©
17 ottobre 2013
Fonte: 80
voglia di Curva Filadelfia © Beppe Franzo © NovAntico
Editrice 2014
Fotografie: GETTY IMAGES
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Adriano
Lazzarini ©
Nicola Di Fazio ©
Nucleo 1985 ©
Video:
Simone Ramella
© Emilio Targia
© Associazionefamiliarivittimeheysel.it
© (NdR: Francesca Cassottana attrice
diplomatasi alla Civica Scuola di
Arte Drammatica Paolo Grassi Milano interprete del
reading teatrale recitato presso la sede del
Consiglio Regionale del Piemonte il 29 maggio 2015 in
occasione del Trentennale organizzato dall'
Associazione)
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